Pensioni, quel pasticcio dell’Ape

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Mentre i parlamentari e gli ex parlamentari si tengono stretti ricchi vitalizi, i soldi per mandare in pensione i cittadini non ci sono mai. E quand’anche si mettono in campo strumenti che consentirebbero di aggirare le dure regole della riforma Fornero, il governo alza poi un sistema di paletti talmente alti che gli interessati non possono usufruirne. Ciò perché basta un nonnulla per far venir meno i requisiti.
Perché il legislatore si comporta in questo modo? Forse per poter strombazzare di aver destinato generose risorse alla previdenza che, invece, al momento opportuno ritornano zitte zitte nel calderone del bilancio per altri scopi? Sembra capiti sempre così, con l’eccezione della dotazione per gli esodati che in effetti va al Fondo occupazione.
Basterebbe ricordare il caso di “opzione donna”: 2,5 miliardi circa stanziati e 800 milioni appena spesi. Oppure prendiamo la vicenda della zoppicante “Ape social” (“Anticipo pensionistico” con annesso “Ape precoci”), una misura già per sua natura assistenziale e non previdenziale, un provvedimento tampone, sperimentale, limitato a soggetti con precise caratteristiche. Riguarda infatti chi ha compiuto almeno 63 anni con 30 o 36 anni di contributi (a seconda delle categorie) e versa in difficoltà in base a specifici profili: è disoccupato senza più la Naspi a sostenerlo da almeno tre mesi; è invalido o caregiver di un congiunto convivente invalido; ha svolto lavori usuranti o gravosi per almeno sei anni negli ultimi sette.
Dunque, si tratta di criteri già di per sé stringenti che comunque non hanno impedito all’Inps di ricevere quasi 40mila domande per l’Ape social e oltre 26mila per l’Ape precoci. Tutto bene? No, perché ministero del Lavoro e Istituto di previdenza si sono incartati in un rimpallo scandaloso di accuse reciproche nel momento in cui l’ente di Boeri ha respinto quasi il 70% delle richieste giunte.
L’Inps è venuta in Parlamento a spiegare. E si è scoperto che i più penalizzati sono da un lato i disoccupati, con circa 24mila domande respinte su 34mila, e dall’altro chi svolge lavori gravosi, con oltre 11mila istanze rifiutate su circa 15mila totali.
Ma perché l’istituto di previdenza ha risposto picche a questi lavoratori? Spesso per motivi risibili, che suonano come una beffa: a volte è bastata una brevissima parentesi di lavoro o addirittura un voucher percepito durante il periodo di inoccupazione a causare il rifiuto.
Ora Inps ha promesso di rivedere le pratiche se il legislatore allargherà le maglie. In ogni caso, siamo di fronte a un provvedimento scritto male, che non risolve i problemi della previdenza italiana e che adesso discrimina anche tra donne con e senza figli.
Serve un ripensamento profondo della legge Fornero: lo farà il M5S, al governo del Paese.
Davide Tripiedi, MoVimento 5 Stelle Camera, Commissione Lavoro